Frankie e Tommy sono due ragazzi italo-americani di Newark. Il primo appartiene a una famiglia per bene (adorabile l’icona in salotto che affianca il Papa a Frank Sinatra), lavora come garzone da un barbiere e ha una voce dall’estensione straordinaria. Il secondo è un piccolo delinquente che campa facendo da autista e sbrigando qualche lavoretto per un boss della mafia locale, Gyp De Carlo. E’ scaltro, sbruffone e conosce le leggi della strada.
I due mettono su un trio assieme a Nick che, come Tommy, entra ed esce dal riformatorio e dopo un po’ accolgono anche il compositore e tastierista Bob. Scelgono finalmente un nome che li convinca – “Four Seasons” – e partono alla conquista del paradiso. Nel suo ultimo film Clint Eastwood racconta la storia vera dell’ascesa e caduta di un gruppo di successo nell’America degli anni ’60, ispirandosi fedelmente all’omonimo musical, vincitore nel 2005 del Tony Awards.
Per farlo, mette insieme un bel cast su cui spiccano i quattro protagonisti – John Lloyd Young, Erich Bergen, Michael Lomenda e Vincent Piazza – e l’interpretazione di Christopher Walken, che è sempre un piacere ritrovare. Attraverso oltre due ore di film, il regista sembra però non riuscire a trovare una vera direzione e perviene infine ad un risultato un po’ ibrido. “Jersey boys” rappresenta infatti una sorta di crocevia di generi diversi – dal biopic al musical, un po’ “Quei bravi ragazzi” e un po’ “Grease” – e soffre di qualche lungaggine che finisce per stancare il pubblico ben prima del gran finale. Forse troppi gli spunti da seguire e troppi i temi da sviluppare: la colonna sonora trascinante, le storie personali, le difficili relazioni tra i quattro, il ritratto di una società-fanciulla ancora piena di sogni e ingenuità, la longa manu della mafia italoamericana.
L’epopea del fenomenale quartetto si snoda tra momenti di esaltazione e di profonda crisi. Ci sono liti e incomprensioni, tournée faticosissime e lutti inaccettabili, lo scontro tra le ambizioni personali, la frustrazione di chi è destinato a rimanere nelle retrovie. Infine si separano, l’entusiasmo e la freschezza iniziale polverizzati dalle inevitabili prove della vita, archiviati i fraterni sentimenti, appannati gli sguardi. Solo allora e forse troppo tardi, arriverà il brano che scaraventerà Frankie e Bob nella leggenda e regalerà loro un successo popolato di fantasmi e appannato da troppa malinconia. “You’re just too good to be true … You feel like heaven to touch. I wanna hold you so much. At long last love has arrived. And I thank God I’m alive. You’re just too good to be true. Can’t take my eyes off of you …”
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