Il grande Flebowsky è un prodotto teatrale che si innesta sul solco del genere agrodolce che ha fatto della produzione di Pistoia il marchio distintivo.
Questa volta senza il suo partner abituale, Paolo Triestino, si cimenta in un genere per lui nuovo, un monologo mutilato per così dire. Mutilato perché oltre a essere supportato da una suggeritrice dietro le quinte è inframmezzato da scene di vita vissuta negli ospedali italiani, dove vede il succedersi sulla scena di vari spaccati di vita del mondo delle corsie. La scelta della regia di Gigi Piola così, opta per la successione di scene come la caposala inflessibile, il malato menagramo, il medico algido, la suora doberman ecc. La resa comica c’è, ma forse andava un po’ più curato l’aspetto drammaturgico. Ottimo comunque il testo di Fabrizio Blini il quale ci induce a riflettere su come l’umorismo che sgorga dal dolore sia poi quello più dirompente e più misterioso dell’umano. Unisce, in effetti, le uniche doti che appartengono al nostro genere: il riso e il pensare la propria sofferenza. Così lo spettacolo si dipana tra situazioni grottesche e amare, tra angoscia e divertimento in un connubio unico e difficile per un autore italiano. Qui in effetti emerge più il graffiante e cinico humour britannico che latino. Il mattatore è sul piano scenico, ovviamente, Pistoia, che riesce a dare un’impronta personale, quasi surreale allo spettacolo rompendo la quarta parete, coinvolgendo lo spettatore senza eccessi, con giusta misura. Apporto importante allo spettacolo lo dà la professionale e impeccabile Ketty Roselli, bravissima nei personaggi femminili che ruotano attorno allo spettacolo e Armando Puccio, nei suoi caratteri e tipi.
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