È un giorno come tanti, all’interno di un ufficio postale. E Busu, un signore trasandato, racconta la storia della famiglia Ciraulo. Qualcuno lo ascolta, altri lo abbandonano ignari della strana vicenda che coinvolge Nicola, Loredana, Tancredi e Serenella, di origine palermitana.
Nicola si arrangia, rivendendo il ferro vecchio delle navi in disarmo, conducendo una vita tranquilla fino a quando la figlia, dopo una gita al mare insieme agli amici Giancaleone, viene colpita da un proiettile vagante durante uno scontro tra bande rivali.
I Giancaleone suggeriscono alla famiglia di Nicola di chiedere un risarcimento allo Stato Italiano, per le vittime di mafia e la speranza di ricevere una somma di denaro piuttosto generosa induce il capofamiglia a spenderli e ad indebitarsi, prima ancora dell’incasso effettivo, fino a quando i Ciraulo non cadono nelle mani di un abile usuraio.
Quando la cifra, finalmente, arriva la famiglia decide di spenderli in un’auto di lusso, una grossa Mercedes, simbolo di ricchezza e opulenza, prova dell’unico status che la gente rispetti davvero.
«Avevo appena finito il film di Marco Bellocchio Vincere come direttore della fotografia, quando mi arrivò la proposta di fare la regia del romanzo di Roberto Aljmo È stato il figlio. Io non conoscevo il libro, anche se il lavoro di Roberto mi era noto. La storia del romanzo mi affascinò subito, era piena di tragica ironia, ma l’ambientazione era talmente realistica che non riuscivo a capire come poterla raccontare per immagini. Stavo per rispondere che non me la sentivo, quando i produttori mi dissero che avevano pensato a me, proprio per scongiurare il pericolo, che anche loro sentivano, di fare qualcosa di convenzionale, una delle tante storie siciliane già descritte molte volte.
Un giorno, mentre ero alla posta per pagare una tassa arretrata, ho notato un uomo seduto che fissava in maniera catatonica sul cartellone luminoso, il susseguirsi dei numeri aspettando il suo turno. Ho immaginato che fosse lì da tanto e che quel segnale luminoso e sonoro scandisse il tempo, un tempo in cui questa persona potesse raccontare tante storie e una in particolare, quella del romanzo. Sarà stata la sua espressione vuota, malinconica o quel modo di tenere le mani incrociate sulla busta di plastica sulle gambe, ma ho iniziato a vedere in quel momento un susseguirsi di immagini di visi e di ambienti che potevano evocare il mio immaginario.
Improvvisamente era tutto chiaro, anche se in quel momento, solo nella mia testa. Quindi avevo bisogno di trovare i collaboratori che avrebbero potuto condividere e realizzare quello che stavo immaginando.
A questo punto dovevo trovare anche le facce per interpretare i personaggi che avevo in mente e così mi feci aiutare da Cristaldi e da Rizzo.
Con Toni Servillo è stata tutta un’altra storia. Nicola era il personaggio più difficile e importante. Abbiamo fatto numerosi provini. Lui era per me come Laurence Olivier, Edoardo De Filippo, Marcello Mastroianni ed ero sicuro che non mi avrebbe neppure risposto al telefono. E invece mi rispose, conosceva tutto il mio lavoro ed era incuriosito dal film. E quando poi ci incontrammo, parlammo, provammo insieme, fu amore per la vita, intendendo complicità, stima e grande amicizia.”
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