E’ possibile cancellare il passato? Allontanarlo affinché i ricordi e i rancori non ci facciano più del male e non influenzino il nostro quotidiano? E’ possibile vivere un presente senza fantasmi, senza rimorsi? Andare avanti senza che il cuore non si fermi, a volte, nella sua folle corsa verso il futuro, tentato di tornare indietro ad annusare un profumo, perdersi in uno sguardo, chiedersi cosa sarebbe stato se l’infinita concatenazione di casualità che è la nostra vita avesse disposto diversamente i suoi tasselli?

Sembra essersi chiesto proprio questo, il regista persiano Asghar Farhadi, autore del film “Il passato”, che, dopo “About Elly” e “Una separazione” sembra confermare definitivamente il suo talento. Tutto comincia con una coppia che si ritrova dopo tanto tempo all’aeroporto di Parigi. Ahmad e Marie sono stati sposati, ma da quattro anni sono separati e ora l’uomo è tornato per firmare il divorzio. Ciò che non immagina è che sarà coinvolto in una dolorosa rete di segreti e rancori familiari e che la stessa Marie gli chiederà, implicitamente, di dipanarla.  Come in un raffinato giallo psicologico, Farhadi ci racconta con garbo, compassione e perfino dolcezza quel grappolo di vite tenute insieme quasi loro malgrado in una casa come tante nei sobborghi della capitale francese. La Marie di Bérénice Bejo, premiata per la sua interpretazione all’ultimo festival di Cannes, è una donna probabilmente incapace di stare da sola, ma anche di far quadrare il cerchio della rete di relazioni che lei stessa si è intessuta intorno. Ahmad, interpretato dall’intenso Ali Mosaffa, ha sguardi che sembrano fatti di velluto e una carezzevole saggezza tutta mediorientale con la quale cerca di “amare” e comprendere nonostante tutto, rimettere insieme i pezzi di una vita che non è sua, portare verità e armonia nel caos. Samir, il nuovo compagno di Marie, viene fuori alla distanza, quando il suo personaggio riesce ad affrancarsi dal rancore astioso della figlia della donna, Lucie, e a far emergere la sua goffa tenerezza di padre e anche l’amore per la moglie, in coma da mesi dopo un tentato suicidio, e nel cui risveglio, segretamente, spera. Lucie, infine, ha tutta la tenera rabbia di un adolescente, ma nasconde nel cuore un rimorso “da grandi”, che le impedisce di perdonare e di perdonarsi e nemmeno nel rifugio offerto da Ahmad riesce a trovar pace.

Dialoghi perfetti, quasi cesellati. Sguardi e silenzi scolpiti in spazi volutamente “comuni”, senza alcuna bellezza. Quello di Farhadi è un film struggente, che incornicia una serie di interpretazioni impeccabili e di personaggi che restano nel cuore, nessuno escluso. Su tutti, i piccoli Lea e Fouad, piccoli elfi di furente tenerezza, che attraverso i loro sguardi ci offrono una prospettiva sempre diversa, a tratti implacabile, di quella dolorosa giostra di sentimenti che è il mondo dei grandi. Da non perdere.

Gloria Bondi
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