Shira, promessa sposa ad un giovane della sua età, è la figlia più piccola di una famiglia di origine ebrea ortodossa di Tel Aviv.
Dopo la morte della sorella maggiore Esther, che scompare dopo aver dato alla luce il suo primogenito, a Shira viene proposto di unirsi in matrimonio con Yochay, il marito rimasto ormai vedovo. La tradizione prevede, infatti, che Yochay si risposi al più presto per dare una madre al figlio. Shira dovrà quindi scegliere se assecondare le volontà della famiglia o se seguire i suoi sentimenti.
Questa la sinossi di “Fill the void”, film in concorso alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia, girato da Rama Burshtein, diplomata alla Sam Spiegel Film and Television School di Gerusalemme. La Burshtein, che ha diretto e prodotto film per la comunità ortodossa, è al suo primo lungometraggio.
“Tutto è nato dal fatto che il mio lavoro è sempre stato incentrato sui rapporti tra uomini e donne”, commenta la regista. “Per i matrimoni l’ebraismo non prevede costrizioni. Nel mondo chassidico in cui questo film è ambientato, i genitori qualche volta propongono delle unioni per i loro figli, ma anche in quel caso la giovane coppia deve essere d’accordo.”
“Al matrimonio della figlia di una mia amica stavo chiacchierando con una persona quando una ragazza molto carina, che avrò avuto non più di diciotto anni, si è avvicinata al nostro tavolo. Portava un orologio d’oro, orecchini con brillanti e un anello con una pietra che luccicava nella sua montatura- chiaro indizio di un recente fidanzamento. La mia amica si è felicitata con lei con un caloroso “mazal tov”, eppure ho percepito qualcosa di strano nella loro conversazione.
Quando la ragazza se n’è andata, la mia amica mi ha detto -Hai visto quella graziosa creatura? Si è fidanzata un mese fa con il marito della sorella che è morta-.
È bastato questo a stimolare la mia immaginazione. La cosa si è sedimentata dentro di me e poco tempo dopo ho buttato giù la storia di “Fill the void”.
“Mi sono lanciata”, prosegue “in questa avventura per un profondo dolore che mi portavo dentro. Sentivo che la comunità ultra-ortodossa non aveva alcuna voce nell’ambito del dialogo culturale. Si potrebbe dire che siamo muti. “Fill the void” è uno spiraglio aperto attraverso una piccola storia tratta da una realtà molto speciale e complessa. Per sua definizione evita qualsiasi confronto tra i due mondi. Credo che gli unici mezzi con i quali creare un ponte tra queste due realtà siano l’onestà e l’assenza di pregiudizi. Su questo ponte dovrà esserci, dovrà basarsi su quel denominatore comune che si trova nel nostro cuore.”
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