Nell’estate del 2010 a Berlino la parte del leone la fa il cinema muto. Decine di film in bianco e nero, un grande omaggio a Chaplin, portati in scena al Babylon (un’istituzione culturale sulla scena berlinese, con posizione strategica accanto alla Volksbuehne) e accompagnati dal vivo dall’orchestra.

Un evento che il pubblico berlinese ha amato molto, riversandosi in massa nella sale un po’ vetuste, ma sempre  affascinanti del Babylon. Un trend, quello della riscoperta del muto, che non a caso è emerso a Berlino, oggi un po’ cuore di tutto quello che palpita sulla scena artistica, culturale in genere, e politica. Non ha sorpreso quindi molto l’uscita di The Artist. Come se si fosse fiutata nell’aria questa voglia di retrò, di riavvolgere la pellicola indietro, verso una recitazione più espressiva, emozioni più forti, che non hanno bisogno della parola per esplodere e raggiungere il pubblico.

Ed ecco la malia di una pellicola che racconta il cinema, il passaggio dal muto al sonoro e il dramma di un attore che non interessa più. Ma.. mentre il pubblico segue un po’ perplesso, senza sapere se possa piacergli un esperimento come questo, accade la magia. La grandezza degli attori, la semplicità della storia, l’assenza di un parlato in un’epoca logorroica, sentimenti resi allo stato puro nell’alambicco del cinema muto ritrovato e… ZAK! Un paio di idee, da non svelare assolutamente, e lo spettatore è incantato, l’Oscar servito (speriamo).

Dujardin, bravissimo, è una scoperta assolutamente imprevista, da non sprecare sull’altare del perbenismo (non vale la pena di dilungarsi sulla sterile polemica scoppiata intorno al manifesto del suo prossimo film, un pretesto per giustificare il suo sacrifico agli Oscar, in favore di un attore a stelle strisce?!?). Certo Clooney è bravo , simpatico, ma Dujardin in questa parte indimenticabile. Per quel che conta, noi abbiamo già votato!!!

Camilla de Nardis
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