Flavio Bucci porta in scena alla Sala Umberto di Roma, a partire dal 16 febbraio,  “Sarto per Signora” di Georges Feydeau, per la regia di Nucci Ladogana. Una coppia di giovani sposi dorme in camere separate, lui, piuttosto disinvoltamente, cerca di sedurre la moglie di un generale, il quale a sua volta ha una vivace amante, ex moglie di un borghesuccio decisamente poco sveglio che affitta appartamenti…

L’arrivo di una suocera invadente ingenera una seria inarrestabile di equivoci, facendo sì che nell’ex atelier di una sartina la situazione esploda in un imbarazzante e surreale carosello che sembra non poter trovare una soluzione. E invece… Si è sempre esaltato, giustamente, il meccanismo di Feydeau, ma non vorrei che questo privilegiare la “struttura”, comune del resto ai grandi autori di teatro anche tragico, facesse passare in sott’ordine il senso di questa scelta. Privilegiare il “meccanismo”, farne il senso stesso dell’opera, accanirsi nel perpetuare gli equivoci fino ad aggrovigliare con perfetta plausibilità gli equivoci degli equivoci e spingere il gioco maniacale fino ad aggiungervi altri strati di equivoci tutti possibili e ben controllati, non è forse un modo di reagire ad un disegno assurdo della realtà? È certo che questo gioco gratuito che faceva preparare a Feydeau i suoi testi secondo schemi geometrici in cui le uscite e le entrate, gli incontri impossibili, le false scoperte, i rimandi e le coincidenze, disegnano figure impeccabili, riporta a un crollo totale dei valori di un’epoca sostituiti da congegni, ovvero strutture senza valori, vuoto riempito di convenzionali linee d’incontro e di scontro, per una follia catastrofica senza senso, un giudizio impietoso su una realtà ormai ridicola. Messaggio neanche tanto cifrato, raccolto dal teatro del novecento in molte sue espressioni, prima fra tutte il cosiddetto “teatro dell’assurdo”. Il pubblico di oggi, rivedendo questi vaudevilles, non li considera affatto come figli di un’epoca determinata, ma li coglie come una relazione, quasi che, alla rovescia, trovasse in queste opere la chiave per capire molto teatro contemporaneo e riconoscere le logiche conseguenze, i contraltari, le appendici deliranti, i commenti, i corollari, in autori fra i più disparati come Cechov, Wedekind, Beckett, lonesco, naturalmente, e Brecht stesso (“Nozze piccolo borghesi”). È per questa ragione che il lavoro su questo testo vuole essere una verifica di questi assunti, un divertirsi a dilatare i suoi momenti, forzando consapevolmente le follie verbali, senza rinunciare ad intervenire su alcuni aspetti legati più propriamente alle “situazioni”.

Gloria Bondi
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