Se non ci fossero specchi, resterebbero gli occhi a dire ad una donna brutta che è brutta. Gli occhi degli altri sono uno specchio. Sono il giudice che decreta se esistiamo o no. Se siamo belli o brutti. Possiamo ignorare il giudizio, cercare di esserne indipendenti, ma tutti desideriamo che qualcuno nel mondo si accorga e guardi la nostra bellezza. La riconosca. Non essere guardati equivale a non essere amati.

Rebecca è una bambina brutta. “Ma proprio brutta”. E’ brutta da sempre, dalla nascita. Da quando sua madre la vede per la prima volta e decide di rinunciare alle passeggiate, alle visite delle amiche. E si rinchiude e la rinchiude nei silenzi di una villa tanto opulenta quanto triste. La  affida alle cure di tate provvisorie, di un padre bellissimo e assente, di una zia eccentrica e rumorosa. Ma “viva”.

“La vita accanto” è il bellissimo monologo frutto dell’adattamento teatrale fatto da Maura Del Serra di un romanzo di Mariapia Veladiano. Lo porta in scena, proprio in questi giorni,  Monica Menchi per la regia di Cristina Pezzoli, al Teatro Libero di Milano.

Dobbiamo dire subito che Monica Menchi si rivela qui interprete straordinaria e non è un caso se proprio questo lavoro le ha regalato il Grand Prix del Teatro 2015 per essere stata l’attrice che al meglio ha interpretato e comunicato il senso di umanità. Sola in scena, tutta vestita di bianco, ci offre come un dono prezioso la tenerezza, la tristezza, il segreto furore di una bimba e di una ragazzina che un aspetto fisico ingrato ha relegato ai margini della vita. Una vita che le passa accanto, appunto, come dice il titolo della piéce.

Intorno a lei un mondo di personaggi a volte ostili, a volte compassionevoli che rappresentano il panorama complesso delle diversità umane a cui lei dà voce in modo sempre efficace, incisivo. La storia di Rebecca è innervata su una trama di segreti familiari dolorosi e inconfessabili. Segreti da svelare per ritrovare la sua identità, per imparare che la realtà ha sempre tante facce e scoprire – troppo tardi – che  in quei silenzi, nelle troppe assenze, c’era molto più amore di quanto abbia potuto sentire.

Ma c’è anche la musica, il talento a riempire quei vuoti e a regalare a Rebecca l’opportunità di esprimersi in modo unico, sublime. Ogni volta che le sue mani (bellissime, loro sì) si posano sulla tastiera di un pianoforte, la bambina brutta diventa un prodigio che sa incantare, che può volare molto più in alto della miseria di quell’umanità che la disprezza e non sa vedere la bellezza di un’anima.

Crescere storti, rinchiusi, evitati dallo sguardo degli altri, provoca dolore – continua la regista – Ma la possibilità di trasformare il dolore, genera a volte, una nuova inaspettata bellezza. La bellezza della musica, della poesia, la bellezza che sta nelle mani di questa bambina brutta. L’atto scandaloso di una bellezza che ha bisogno di orecchie e di anima per essere vista più che di occhi.Questa storia sfida il tempo in cui è stata scritta: un’epoca in cui l’apparire ha seppellito l’essere, in cui “photoshoppare” visi e corpi è la regola che si impone per correggere e falsificare ogni minima imperfezione del corpo umano.Mettere in scena la bruttezza come metafora, conservarne il mistero, non banalizzare rendendo realisticamente “mostruosa” la protagonista, è un compito non piccolo poichè tutto quello che accade nel romanzo di Maria Pia Veladiano e nella efficace riduzione teatrale di Maura Del Serra, ruota intorno a questa condizione. La letteratura e la poesia possono far vedere solo dicendo, il teatro deve far vedere anche agli occhi.

Straordinario e commovente. Questo spettacolo merita davvero di essere visto. Fino al 29 novembre.

Gloria Bondi
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