Una manciata di settimane. Una sfortunata tournée. Il vortice nero dei ricordi. I fantasmi di una vita vissuta in bilico tra realtà e finzione. Il talento, immenso, che comunque non basta a riportarti a galla. Il pluripremiato “Judy”, di Rupert Goold è molto più del ritratto di una diva al tramonto. E’ il grido disperato e appassionato di una donna il cui successo planetario ha richiesto un prezzo davvero troppo alto. Renée Zellweger, in stato di grazia e vincitrice di un meritato Oscar, dà volto e voce ad una donna tesa, sfinita, soffocata dal bisogno, costretta a lottare, con le ultime forze che le restano, per non soccombere. Ma che forse vorrebbe solo sprofondare nell’oblio. Sola, senza una casa, bandita ormai dallo star system per la sua inaffidabilità, incapace di prendersi cura dei suoi figli più piccoli e bisognosa di denaro. Così Judy Garland trascorse gli ultimi anni della sua vita. Il suo nome era una leggenda e poteva ancora riempire i teatri. Ma gli impresari la evitavano perché, schiava di alcool, medicine e della sua fragilissima psiche, era diventata troppo inaffidabile per meritare i loro investimenti. Così, spinta dal bisogno, accettò l’ingaggio di un celebre locale londinese, il Talk of the Town. Ma fu un disastro, nonostante l’impegno di Rosalyn Wilder, che si occupò di lei e il cui contributo è stato, tra l’altro, determinante per la scrittura della sceneggiatura del film. La Zellweger è davvero bravissima nell’offrire allo spettatore il ritratto straziante di una stella di immenso talento, divorata dalla sua stessa fragilità, spaventata, instabile, eppure ancora così ammaliante quando sul palco i suoi fantasmi le danno tregua e la sua luce torna a brillare. Pochi istanti e basta anche un solo barlume per rivelarci la sua grandezza. Spezzano il cuore i flashback che ci riportano a quel 1939, sul set de “Il mago di Oz”, quando la giovane Judy cerca ancora di ribellarsi alla macchina crudele dello Star System. I suoi dialoghi con Louis B. Mayer, padre padrone della MGM, ci raccontano di come quella ragazzina non avesse nessuna possibilità di opporsi alle regole e al tempo stesso rimanere nel sistema. Lui la rese di fatto una stella, ma la condannò alla dipendenza e all’insonnia che la tormentò per tutta la vita. Tutto veniva controllato e artefatto. Perfino le torte di compleanno erano di plastica, ad esclusivo uso dei fotografi. Alla Judy al tramonto vengono ancora concessi pochi, ultimi, attimi di verità. Una serata estemporanea passata a casa di due fan, tra un’omelette mal riuscita e memorabilia amorevolmente raccolte. E la torta, vera, che finalmente si concede di mangiare, quando le viene offerta alla fine della tournée, come gesto di addio. Judy Garland morì appena sei mesi dopo quella sfortunata avventura londinese. Ci resta la sua voce e la traiettoria luminosa della sua straziante parabola. Comune a chissà quante altre.
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