“Le persone non entrano per caso nella nostra vita, le chiamiamo”. Questa è la frase di un film. La città è in bianco e nero, perché il colore sembra essersi cancellato. La città è Milano. Nel 1960, ma anche e soprattutto nel 2016. Due donne avanzano, vicine e distanti come due rette parallele: potrebbero essere due amanti, ma anche due rivali nell’amore per lo stesso uomo. O forse ancora, entrambe legate a lui, ma appartenenti a due momenti diversi della sua vita. Tutto può essere, quando non ci sono testimoni.

Per comporre Identikit di una donna Antonio Syxty, ha volutamente utilizzato un soggetto originale di Michelangelo Antonioni, su cui aveva precedentemente lavorato negli anni ’80 (con il permesso e la collaborazione dello stesso Antonioni) e la visione, in particolare, di tre lungometraggi del regista:

La notte (1961), L’eclisse (1962), Il deserto rosso (1964).

Grazie alla collaborazione di Valeria Cavalli la composizione di Identikit si è arricchita di una drammaturgia che si basa – nel suo svolgimento – su quello che è sempre stato il procedimento narrativo del grande regista nell’immaginare e scrivere i suoi film.

«Ho scelto di fare un omaggio a Michelangelo Antonioni  – racconta Antonio Syxty  perché ha influenzato – a più riprese – tutto il mio lavoro. Non so perché questo sia successo. Forse perché mi sono trovato più volte a considerare il teatro una forma d’arte comportamentale, o forse perché venendo dall’arte visiva e concettuale, praticavo una sorta di situazionismo performativo alla fine degli anni ’70 e inizio anni ’80 che mi avrebbe necessariamente fatto intraprendere un percorso più analitico e soggettivo, quasi didascalico, nei riferimenti teatrali che sarebbero venuti dopo quel periodo.

È certa tutta la mia infatuazione nei primi anni ‘80 per l’école du regard francese – degli anni ’50 – e a quella forma di de-drammatizzazione narrativa e interpretativa sulla scena legata principalmente allo sguardo (cosa vediamo quando guardiamo e, anche, cosa scegliamo di vedere quando guardiamo, e di conseguenza cosa decidiamo di raccontare o non raccontare, e come).

Talvolta Antonioni è stato accostato – a torto o a ragione – all’école du regard di Alain Robbe-Grillet.

Roland Barthes parlando di Antonioni scrive: “… tu lavori per rendere sottile il senso di ciò che l’uomo dice, racconta, vede o sente, e tale sottigliezza del senso, questa convinzione che il senso non si ferma grossolanamente alla cosa detta, ma si spinge sempre più lontano, ammaliato dal fuori-senso, è quella, credo, di tutti gli artisti, il cui oggetto non è questa o quella tecnica, ma quello strano fenomeno che è la vibrazione. L’oggetto rappresentato vibra, a scapito del dogma”.

Ecco mi sembra che in questa frase sia racchiuso tutto il senso di un fascino con il quale ho camminato per anni, anche senza volerlo o esserne direttamente consapevole.»

 In scena:  Caterina Bajetta, Guglielmo Menconi, Bruna Serina de Almeida.

Al Teatro Litta di Milano dal 23 giugno al 9 luglio.

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Teatro Litta, Corso Magenta 24, Milano. Tel. 02 86 45 45 45 – biglietteria@mtmteatro.it

Gloria Bondi
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