Il primo film della trilogia Triad, “WAITING”, è diretto da Simone Orlandini. Poiché l’intera narrazione si svolge in un unico luogo, il film viene interamente girato in un set cinematografico appositamente costruito. Per la prima volta in una produzione cinematografica un’unica attrice interagisce solamente con se stessa e con le sue paure per la quasi intera durata del film. Dentro le mura di casa la protagonista vive la guerra non vedendola, ma sentendone solamente rumori, odori e sensazioni. Poco a poco l’attrice e lo spettatore si fonderanno in un’unica entità. Isolato dalle altre persone in sala, lo spettatore imparerà a distinguere il suono del proprio respiro da quello del vicino, immerso in un tempo narrativo lineare di 90 minuti e corrispondente a quello di vita dello spettatore-attore. Non ci sarà via di fuga per la persona in sala che, immersa in un buio reale e tangibile e guidata da una fotografia reale e non ‘realistica’, sarà costretta a scoprire e ad affrontare le proprie paure, il proprio dolore, fino a scoprire un attaccamento alla vita che, forse, mai aveva compreso di possedere. La minaccia di morte e la paura non incombono solo sulla protagonista ma diventeranno realtà per lo spettatore stesso.
NOTE DI REGIA
Scardinare la funzione filmica di base, trasmutare la funzione passivo-fruitiva dello spettatore in attivo-creativa: fino ad oggi il cinema non aveva mai oltrepassato il limite dello schermo, coinvolgendo attivamente lo spettatore-attore-regista.
Cosa vuol dire questo? Partiamo dal film: una ragazza, durante il periodo della guerra, una guerra che non sappiamo esattamente quando e dove si svolga, una guerra archetipica, che non ha inizio né fine. Non avremo mai il sollievo di distaccarcene, poiché ne saremo coinvolti: toccherà direttamente le nostre paure, il nostro personalissimo e pudico dolore.
Beckettianamente, andremo a lavorare su qualcosa che non si vede perché ancora non c’è, perché si rivela nel tempo di vita del film, che è un tempo reale di maturazione empatica per lo spettatore-attore. Questa donna aspetta qualcuno che è uscito, non sappiamo chi è e non lo sapremo mai e per ciascuno sarà un’attesa diversa. Non dimentichiamo che fuori dal grembo della casa vi è il mondo e il mondo è in guerra. Una bomba cade vicino alla casa si ode un grande frastuono, un boato, si rompono i vetri della finestra, entra la neve, si creano paure ed ombre nuove e adesso l’interazione è con quel mondo esterno, finora sconosciuto, penetrato violentemente all’interno della casa-utero.
Proviamo ad immaginare uno spettatore che, immerso in una visione filmica illuminata, conosciuta, di punto in bianco si trovi nel buio assoluto e tutto ciò che credeva familiare improvvisamente svanisce, perché si tratta, in verità, di una conoscenza superficiale, un’illuminazione altra che non vive di una propria fiamma. Per circa tre minuti lo spettatore non potrà sottrarsi dal vivere tutto quello che vive l’attore: ciò che lo spettatore sente adesso non è solo ciò che proviene dal film, ma tutto ciò che c’è in sala; ogni visione, ogni replica del film sarà una nuova visione del film. Se sentirà un grido si chiederà chi abbia gridato e perché, e inevitabilmente trasmetterà al personaggio le sue paure; se un’altra persona in sala lancerà un urlo non saprà perché quella persona sta urlando; la visione sarà sempre diversa, perché non c’è riferimento visivo, ma c’è solo quello che ciascuno crea, come quando si legge un libro: ecco lo scardinamento della funzione filmica.
La visione che si ha è quella che si sta creando. Tre minuti di buio sono molti. Si crea fastidio. Dopo questo periodo di buio, piano piano tornerà la luce e sarà la luce delle candele che la protagonista avrà acceso e che saranno l’unica illuminazione che accompagnerà tutto il successivo svolgimento del film. La fotografia si baserà realmente esclusivamente su questa fonte di illuminazione. Noi saremo lo sguardo di questa donna; lo spettatore sarà quel bambino, quella ragazza, quel ragazzo, uomo, donna in sala, immerso nel buio. E il buio fa paura.
Nella seconda parte del film scopriremo le vere paure della protagonista, che cercherà conforto nelle ombre che si creeranno dentro e fuori di sé, sempre nell’attesa di questa persona.
Sentiamo il rumore dei passi lungo le scale. La donna è felice, sta arrivando la liberazione, la persona tanto attesa. Sentiamo dei rumori. Le luci delle candele tremolanti creano delle ombre nella stanza, si apre la porta e vediamo solo il profilo di questa persona. Intravediamo solo una sagoma. La donna è felice. E, nell’immediatezza, un grandissimo boato, lo schermo bianco e un forte sibilo.
Abbiamo ucciso lo spettatore
IL SET
Il film è stato interamente girato in un set a Berlino. Un concetto eco-sostenibile verrà applicato all’intera costruzione. Tutti i materiali utilizzati, come la paglia, il legno riciclato, i mobili usati e i materiali di scarto sono stati scelti conformemente alla nostra filosofia di sostenibiltà per l’ambiente. Un progetto di questo genere non è mai stato realizzato nella storia del cinema ed è stato una sfida per i nostri costruttori del set! Le riprese hanno avuto luogo nei mesi di maggio e giugno 2011.
Regia: Simone Orlandini – Sceneggiatura: Teresina Moscatiello, Chiara Licciardello, Simone Orlandini – Interpreti:Teresa di Paolo – Gary Lewis – Produzione: Sinafilm Produktion GmbH, Triskelion Film Ltd.
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