<<La guerra è il più brutto castigo che ci può essere nella vita>>. L’alpino Rolando Trentini è un fascista convinto, ma quando si trova accampato al freddo, davanti al Don ghiacciato, capisce che non saranno i suoi ideali e nemmeno l’energico vigore della sua giovinezza a salvarlo. Intorno, tanti come lui. Giovani mandati al macello, lontani da casa, vittime delle ambizioni di un regime, destinati a diventare presto solo nomi su una lapide.
La ritirata di Russia del 1943 è stato uno degli episodi più drammatici di una guerra terribile. A quei fatti è dedicato “La notte che il nulla inghiottì la terra”, di Marco Merlini ed Emanuele Fant, in scena in questi giorni al Teatro Libero di Milano.
<<L’idea – racconta Marco Merlini, che dello spettacolo è anche regista – è nata dalla lettura di un racconto di Nuto Revelli – ufficiale della Divisione Tridentina, poi partigiano e infine scrittore – pubblicato nella raccolta “Mai tardi” e poi successivamente incluso anche ne “La guerra dei poveri”. La storia stessa di Revelli è emblematica. Partito da fascista, al ritorno divenne uno dei comandanti della resistenza in Piemonte. Durante la campagna di Russia si era reso conto che tutte quelle decine di migliaia di uomini erano stati mandati allo sbando, senza cibo, senza armi a sufficienza, senza abiti adatti. Aveva visto morire i suoi compagni e quando poi erano tornati in Italia, li avevano nascosti perché erano malconci e avevano preferito far sfilare le reclute ben vestite. Allora aveva capito che il modo migliore di servire il suo Paese era fare la resistenza ed era fuggito sulle montagne>>
Rolando Trentini, invece, protagonista della piéce, dal fronte non tornerà. Prima ferito a morte e poi abbandonato al freddo durante la ritirata, diventerà uno dei 100.000 che non fecero ritorno.
Ma il nodo di tutto non è il finale, quello che conta, in questo caso, è il percorso. L’opera è stata costruita come una sinfonia. Inizia con un allegro che è l’entusiasmo della partenza e anche l’incoscienza di chi pensa di tornare in poche settimane. Poi arriva il dramma.
<<C’è stato anche un lavoro importante sul linguaggio al quale abbiamo cercato di dare un ritmo musicale – spiega Merlini – I soldati parlavano tanti dialetti, impossibile privilegiarne uno. Allora abbiamo scelto l’italiano con una leggera sporcatura dialettale e una semplificazione (con la rinuncia al congiuntivo, ad esempio) che lo rendesse popolare ma non grezzo o assolutamente incolto>>.
La piéce, che ha forma di monologo, è in realtà un’opera corale. Nel racconto di Rolando Trentini ne sono incastonati migliaia di altri. E questo è possibile non solo grazie alla costruzione dei testo, ma anche alla bellissima prova d’attore di Michele Bottini, che sostiene, con ammirevole energia, tutto l’impegno di una narrazione complessa ed emotivamente importante.
<<A me piace raccontare delle storie – continua Merlini – e il teatro è un buon linguaggio per non dimenticare. Io conoscevo già delle storie sulla ritirata di Russia, ascoltate nei racconti dei vecchi e conoscevo i cori degli alpini che sono stati oggetto di un’ attenta ricerca musicale e poi fatti parte integrante dello spettacolo. Del racconto originale c’è poco. Abbiamo fatto un grande lavoro sul testo. In termini di contenuto abbiamo fatto in modo che il protagonista racchiudesse in sé tre personaggi. Il primo, Rolando Trentini parte perché ci crede. E’ entusiasta, verboso, pieno di energia. Poi c’è l’amico di infanzia, Gino Zamboni, che è il pessimista da convincere. Il terzo è il tenente Benvenuti, loro coetaneo, ma un po’ più istruito, quello che tiene insieme il gruppo. Ci mette una nota di ufficialità, ma anche il suo buon senso. Sarà l’unico a tornare a casa>>.
Tra il 1941 e il 1942 l’ambizione di Mussolini e il suo disperato desiderio di compiacere Hitler lo spinsero a mandare in Unione Sovietica più di 200.000 uomini. Dovevano sbaragliare l’Armata Rossa e il regime comunista di Stalin. Ma il freddo, la fame, gli equipaggiamenti inadeguati, le scarpe “di cartone” ebbero la meglio su tanti di loro. Più dei combattimenti, forse, i rigori di un inverno a cui non erano preparati, la fatica e gli stenti piegarono le loro forze. In 100.000 non fecero ritorno.
“La notte che il nulla inghiottì la terra” è un lavoro bellissimo e importante. Da non perdere, per non dimenticare.
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